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Silvio Berlusconi, solo un povero uomo tanto sfortunato

creato da Gian Joseph Morici – Ultima modifica 28/06/2009 18:11

1973/76 il mafioso  Vittorio Mangano, già noto alle forze dell’ordine, lavora come fattore nella villa di Silvio Berlusconi, dove viene anche arrestato un paio di volte.

A presentare Mangano a Berlusconi, era stato Marcello Dell’Utri.

Dell’Utri aveva conosciuto Berlusconi a metà degli anni 60′ quando si incontrano, alla facoltà statale di legge.

Dell’Utri torna poi in Sicilia, mentre Berlusconi, rimasto a Milano, inizia la sua carriera di imprenditore edile, con soldi di cui non si è mai saputa la provenienza.

Mangano ad Arcore più che uno  stalliere, è un ospite di riguardo.

Siede a pranzo e cena con Berlusconi e invita ad Arcore i suoi amici siciliani, che poi i pentiti indicheranno come mafiosi latitanti.

Quando i magistrati a Dell’Utri domandano chi fossero, lui risponde che non erano tipi a cui fare domande!

Durante la permanenza alle “dipendenze” di Berlusconi, Mangano organizza il rapimento del principe D’Angerio, ospite dello stesso Berlusconi.

Nonostante fosse stato informato dai carabinieri del coinvolgimento del suo stalliere nel sequestro di persona, Berlusconi non licenziò Mangano e continuò a tenerlo per ancora due anni.

Fu poi Mangano stesso a voler andare via, anche se Dell’Utri e Berlusconi tentarono di fermarlo.

Il pentito Salvatore Cancemi , dichiarò che la FININVEST di Berlusconi, attraverso Marcello Dell’Utri e Mangano, pagava annualmente a Cosa Nostra, un pizzo di 200 milioni di lire.

Nel 80′ Mangano viene arrestato da Giovanni Falcone.

Quell’anno a Londra si sposa il boss internazionale Jimmy Fauci. Tra gli ospiti, c’era Marcello Dell’Utri.

 

1) Vittorio Mangano: condannato all’ergastolo per duplice omicidio; condannato per Mafia nel processo “Spatola” istituito da Falcone; ulteriore condanna per traffico internazionale di droga nel maxi processo istituito da Falcone e Borsellino.
2)  Marcello Dell’Utri: condanna definitiva a 2 anni, una in appello a 2 anni per estorsione mafiosa, ed una in primo grado per associazione mafiosa. Condannato a 9 anni.

 

1979 Pizza Connection è il nome di una indagine sul traffico di droga tra Italia e Stati Uniti avviata il 12 luglio 1979.

 

La morfina, proveniente dai paesi mediorientali, giungeva nel palermitano. Lì c’erano le “raffinerie” di droga, che la trasformavano in eroina, destinata al mercato americano, newyorkese in particolare. L’indagine è durata 4 anni; ma la svolta nella lotta alla micidiale eroina si ebbe quando la “commissione”, la famosa cupola dei capi creata da Lucky Luciano, decise di eliminare il boss Carmine Galante, in contrasto con la commissione stessa perché voleva tenere sotto il suo controllo l’intero business della droga Sicilia-New York.

Dopo questa uccisione le indagini ebbero una svolta sorprendente come individuazione degli obiettivi da combattere: sia alla fonte (Totò Riina e i suoi “Corleonesi” che nel frattempo avevano preso il controllo delle raffinerie di eroina di Palermo) e alla destinazione, le insospettabili pizzerie aperte o rilevate dai siciliani fatti arrivare in quantità da Carmine Galante come i fratelli Miki ed Antony Lee Guerrieri parenti dell’ex boss milanese Giuseppe Guerrieri che a New York gestivano tutto l’import e lo smercio all’ingrosso dello stupefacente per John Gotti, capo della famiglia Gambino.

Si scoprirà in seguito, che il nome di Silvio Berlusconi compare già in questa indagine. Così come, compare il nome di Franco Della Torre, un cittadino svizzero che, secondo Scelsi, Procuratore di Bari, avrebbe usato ancora una volta il vecchio trucco utilizzato in precedenza per riciclare i narcodollari, per ripulire i soldi provenienti dal contrabbando che vede coinvolto il Montenegro,

 

15 febbraio 1983 la Banca Rasini sale agli onori della cronaca, per via dell'”Operazione San Valentino”. La polizia milanese effettua una retata contro gli esponenti di Cosa Nostra a Milano, e tra gli arrestati figurano numerosi clienti della Banca Rasini, tra cui Luigi Monti, Antonio Virgilio e Robertino Enea. Si scopre che tra i correntisti miliardari della Rasini vi sono Totò Riina e Bernardo Provenzano e lo stesso stalliere Vittorio Mangano. Anche il direttore Vecchione e parte dei vertici della banca vengono processati e condannati, in quanto emerge il ruolo della Banca Rasini come strumento per il riciclaggio dei soldi della criminalità organizzata.

I giudici di Palermo, anche a seguito delle rivelazioni di Michele Sindona e di altri “pentiti”, indicano la stessa banca Rasini come coinvolta nel riciclaggio di denaro di provenienza mafiosa

Michele Sindona nel 1984, quando il giornalista del New York Times, Nick Tosches, chiese a Sindona (poco prima della misteriosa morte di quest’ultimo): «Quali sono le banche usate dalla mafia?». Sindona rispose: «In Sicilia il Banco di Sicilia, a volte. A Milano una piccola banca in Piazza dei Mercanti». L’unica banca presente a Piazza dei Mercanti, al tempo, era inequivocabilmente la Banca Rasini.

Il padre di Silvio Berlusconi, Luigi Berlusconi fu prima un impiegato alla Rasini, quindi procuratore con diritto di firma, ed infine assunse un ruolo direttivo all’interno della stessa. La Banca Rasini, e Carlo Rasini in particolare, furono i primi finanziatori di Silvio Berlusconi all’inizio della sua carriera imprenditoriale. Silvio e suo fratello Paolo Berlusconi avevano un conto corrente alla Rasini.

La Banca Rasini risulta anche nella lista di banche ed istituti di credito che gestirono il passaggio dei finanziamenti di 113 miliardi di lire (equivalenti ad oltre 300 milioni di euro nel 2006) che ricevette la Fininvest, il gruppo finanziario e televisivo di Berlusconi, tra il 1978 ed il 1983.

 

1983: la Guardia di finanza, nell’ambito di un’inchiesta su un traffico di droga, aveva posto sotto controllo i telefoni di Berlusconi. Nel rapporto si legge: «È stato segnalato che il noto Silvio Berlusconi finanzierebbe un intenso traffico di stupefacenti dalla Sicilia, sia in Francia che in altre regioni italiane. Il predetto sarebbe al centro di grosse speculazioni edilizie e opererebbe sulla Costa Smeralda avvalendosi di società di comodo…». L’indagine nel 1991 fu archiviata.

 

Sempre agli inizi del ’90, viene fatta interrompere un’indagine della polizia svizzera, condotta dal commissario Fausto Cattaneo, proprio quando stava raccogliendo prove importanti su come i narcotrafficanti riciclavano il loro denaro.

La testimonianza di Cattaneo, accanto a quella del giornalista Sidney Rotalinti, denuncia i traffici di droga verso l’Europa e il riciclaggio di grandi capitali attraverso grandi gruppi finanziari come quello Fininvest.

Nome dell’operazione era “Mato Grosso”.

Nei rapporti di polizia ticinesi il nome di Berlusconi comparve all’inizio degli anni ’90 ai margini dell’operazione Mato Grosso. Nel gennaio 1991 alla Migros Bank di Lugano, fallì una grossa operazione di riciclaggio di denaro di un cliente e fu arrestato il brasiliano Edu De Toledo. La procura federale, il comando di polizia e la procura ticinesi inviarono e fecero infiltrare nell’organizzazione il commissario di polizia ticinese Fausto Cattaneo.

Cattaneo scrisse nella sua relazione del narcotrafficante brasiliano Juan Ripoll Mary, il quale nel descrivere le sue operazioni di riciclaggio tramite 4 società di Panama rappresentate anche a Lugano, avrebbe affermato: “Il denaro che arriva dall’Italia proviene dall’impero finanziario di Silvio Berlusconi”.

Stranamente, Carla del Ponte e le autorità di giustizia e di polizia competenti, archiviarono il caso.

Queste le interviste rilasciate da Cattaneo e Rotalinti:

 

1° filmato

2° filmato

3° filmato

4° filmato

 

Carla del Ponte, da Giudice del Canton Ticino, merita di essere ricordata per il depistamento e per il fallimento di molte indagini critiche, come quella del Mato Grosso, del Ticinogate, e del Russia Gate.

Non va inoltre dimenticato, come la stessa tentò d’intralciare le indagini del Giudice Giovanni Falcone quando indagava sulle Banche luganesi e sui loro rapporti con i boss mafiosi, cercando di nascondere i possibili collegamenti tra le finanziarie di Chiasso e i Caruana-Cuntrera.

Un’altra importantissima intervista, per comprendere quanto accadeva in quegli anni, è l’ultima intervista rilasciata dal Giudice Paolo Borsellino.

 

Di lì a poco, Falcone, Borsellino e le loro scorte, verranno fatti saltare in aria con il tritolo.

Silvio Berlusconi venne anche indagato per le stragi.

Anche  Paolo, fratello minore di Silvio,  pregiudicato per truffe da decine di milioni di euro, ha un “incontro ravvicinato del terzo tipo” con ambienti mafiosi e individui dediti al traffico di stupefacenti.

Questa la storia.

 

Riepilogo:

 

– Silvio Berlusconi dal 1974 al 1976 ospita nella villa di Arcore il noto mafioso, Vittorio Mangano, intimo del suo segretario Marcello Dell’Utri, già oggetto di denunce e arresti. Due arresti, effettuati proprio in casa del premier;

 

– Primi anni ’80 il nome di Berlusconi viene fuori durante l’indagine denominata “Pizza Connection”;

 

– Nell’83 la Banca Rasini, che insieme al suo fondatore, Carlo Rasini, furono i primi finanziatori di Silvio Berlusconi, assurge agli onori della cronaca a seguito di un’inchiesta sul il riciclaggio dei soldi della criminalità organizzata e si scopre così che gli esponenti di “Cosa Nostra” (Riina, Provenzano, Calò, Mangano), avevano lì i loro conti correnti;

 

– Sempre nel 1983, la Guardia di Finanza, nell’ambito di un’inchiesta sul traffico di droga, mette sotto controllo i telefoni di Berlusconi (non c’era né il lodo Alfano, né altri decreti “ammazza intercettazioni”) e in una relazione scrive che “ il noto Silvio Berlusconi finanzierebbe un intenso traffico di stupefacenti dalla Sicilia, sia in Francia che in altre regioni italiane. Il predetto sarebbe al centro di grosse speculazioni edilizie e opererebbe sulla Costa Smeralda avvalendosi di società di comodo..”;

 

– Nel ’91 a  Lugano, fallì una grossa operazione di riciclaggio di denaro e la procura federale, il comando di polizia e la procura ticinesi , fecero infiltrare nell’organizzazione il commissario di polizia ticinese Fausto Cattaneo, il quale nella sua relazione  scrisse del coinvolgimento della Fininvest in grosse operazioni di riciclaggio;

 

– Il Giudice Falcone, prima di essere ucciso, indagava già sulle Banche luganesi e sui loro rapporti con i boss mafiosi;

 

– Paolo Berlusconi, gestiva in società un ristorante, all’interno del quale l’attività prevalente era lo spaccio di sostanze stupefacenti, e che annoverava clienti di spicco, come il figlio del boss Nitto Santapaola;

 

– L’uomo che organizzò il riciclaggio dei narcodollari dell’operazione “Pizza Connection”, è lo stesso citato per riciclaggio nelle relazioni dell’operazione “Montecristo”, che vede coinvolto il primo ministro del Montenegro, paese che, avendo chiesto di poter entrare a far parte dell’Unione Europea, ha in Berlusconi l’unico sponsor;

 

– Berlusconi si avvale della facoltà di non rispondere ai giudici dell’antimafia, che chiedono di sapere la provenienza dell’equivalente di 300milioni di euro, arrivati da parte di un misterioso donatore  alle finanziarie Fininvest, tra il 1975 e il 1983.

 

 

Conclusioni:

 

– Berlusconi è vittima della malasorte e tutti quelli che lo circondano sono mafiosi, narcotrafficanti e uomini dediti al riciclaggio, solo per un fortuito caso;

 

– I soldi (equivalenti a 300mln di euro), furono donati a Fininvest da qualcuno che ritenne la società un’opera pia dedita alla beneficenza. Le date, che forse destarono  tanti sospetti, furono in verità un’altra disgraziata coincidenza;

 

– Forse neppure Riina, Provenzano, Santapaola, Calò e Mangano, sono o erano mafiosi ed essendo viceversa uomini misericordiosi e timorati di Dio, sono stati vittime del male e di un complotto ordito in loro danno.

 

In un contesto di questo genere, ha ancora un senso svolgere delle indagini e coinvolgere il povero signor Berlusconi, colpito da tanta sfortuna, in inchieste banali quali quella sulle escort e sul consumo di modeste quantità di cocaina?

Evidentemente, di tanta sfortuna, si è resa conto pure l’opposizione, che non ha mai utilizzato questi argomenti.

Solo Bossi, senza riguardo alcuno e senza pietà per un pover’uomo tanto sfortunato, aveva commissionato un’indagine investigativa, salvo poi essendosi resosi conto dell’incredibile casualità, da attribuire tutta alla sfortuna, che legava Berlusconi a simili loschi traffici, tornare a essere il suo più fedele alleato.

http://www.wikio.it/

operazione mato grosso

da “I Siciliani nuovi”, marzo 1994

Per quanto riguarda il denaro da riciclare in provenienza dall’Italia, (v. nostro rapporto 10.6.91), il medesimo apparterrebbe al clan di Silvio BERLUSCONI. Già si dispone del codice di chiamata (per il trasferimento di denaro dell’Italia): dovranno unicamente designare una persona di fiducia di tale gruppo.
Il nome di Berlusconi non deve impressionare più di quel tanto poiché anni fa, segnatamente ai tempi della Pizza Connection, lo stesso era fortemente indiziato di essere il capolinea dei soldi riciclati. All’epoca si interessava dell’indagine l’allora giudice Di Maggio, che era stato anche in Ticino per conferire con l’ex procuratore pubblico on. Dick Marty».
Il rapporto della polizia cantonale di Bellinzona, graziosa cittadina del Canton Ticino, è datato 13 settembre 1991, e intitolato: «aggiornamento Operazioni “ATLANTIDA” e “MATO GROSSO”». Risulta inviato al comandante della polizia cantonale Mauro Dell’Ambrogio, al Procuratore Pubblico di Lugano Carla Del Ponte e a quello di Bellinzona, Jacques Ducry. A firmarlo sono il comandante della sezione “Informazioni droga” del Canton Ticino Daniele Corazzini e il comandante della polizia di Bellinzona, Silvano Sulmoni. Questo delicatissimo documento è allegato agli atti dell’inchiesta “Mato Grosso”,
ferma da diversi mesi alla procura di Lugano.
A parlare per primi del presunto coinvolgimento di Silvio Berlusconi nell’inchiesta “Mato Grosso”, furono i giornalisti del quotidiano svizzero “L’Altranotizia”, che pubblicarono una serie di servizi tra novembre e dicembre dello scorso anno. Partendo da quella notizia, abbiamo rintracciato il rapporto della polizia di Bellinzona, con il suo sconcertante contenuto: Silvio Berlusconi – o meglio «il clan Berlusconi», come scrivono le autorità svizzere – sospettato di essere coinvolto in una grossa operazione di riciclaggio. O addirittura, come si legge nel documento, già messo sotto inchiesta in passato per la “Pizza Connection”, una gigantesca indagine sugli affari di grandi boss della mafia turca e siciliana, che intrattenevano rapporti da un lato con i salotti buoni della finanza svizzera, e dall’altro con il capo della P2 Licio Gelli (vedi “Avvenimenti” del 19 gennaio 1994).
“Avvenimenti” aveva già documentato, nelle scorse settimane, i rapporti di antichissima data tra il gruppo Berlusconi, e la Fi.Mo., una finanziaria svizzera specializzata nella gestione di capitali “sporchi”, e coinvolta nelle indagini sul “cartel” di Medellin; e quei rapporti erano stati confermati dalle dichiarazioni di Gianmauro Borsano, presidente del Torino Calcio, ai magistrati che indagano sull’affare Lentini. Ma prima di deciderci a scrivere di questa seconda vicenda, riguardante un candidato al governo dell’Italia, e quindi obbligato a particolari doti di trasparenza, siamo andati per molte settimane a caccia di conferme o smentite alle notizie contenute nel rapporto del 13 settembre 1991, firmato da due alti funzionari di polizia e regolarmente inviato a tutte le autorità inquirenti. Abbiamo raccolto tanto le conferme quanto le smentite. Ma prima di tirare conclusioni, bisogna raccontare una storia. L’incredibile storia di un finanziere, di un poliziotto, e di una città invisibile.
La mattina del 12 giugno 1991 pioveva sul Ticino e sul nord Italia. Il finanziere ispano-brasiliano Juan Ripoll Mari compose, da Torino, il numero di un ufficio di trasporti di Chiasso, al confine italo-svizzero. All’altro capo del filo rispose, in spagnolo, un uomo che salutò cordialmente Ripoll Mari. I due si diedero appuntamento per qualche ora dopo, nell’ufficio di Chiasso.
L’uomo di Chiasso, che Ripoll Mari conosceva come un trasportatore di pochi scrupoli, era in realtà un agente della polizia cantonale specializzato in operazioni “undercover”, sotto copertura. Dal suo lavoro erano scaturite molte operazioni contro il grande riciclaggio del denaro sporco in Svizzera: dalla “Green Ice” alla “Octopus”, fino alla “Lebanon Connection”.
A Juan Ripoll Mari, il poliziotto si era presentato come proprietario di una agenzia di trasporti specializzata nel far passare illegalmente alla dogana italo-elvetica merci di ogni genere. L’agente infiltrato aveva mostrato con legittimo orgoglio a Ripoll Mari i suoi furgoncini con doppio fondo, e i suoi ragazzi pronti a rischiare la galera ad ogni passaggio di frontiera in cambio di un ottimo stipendio. Ripoll Mari aveva voluto incontrare molte volte il trasportatore ticinese prima di affidargli il lavoro. Alla fine aveva deciso di fidarsi, e i due erano persino diventati amici.
La fiducia era molto importante in quel lavoro, perché non era un lavoro qualunque. Ufficialmente Ripoll Mari era un grande esportatore di prodotti dal Sud America: succhi di frutta, blocchi di granito, shampoo vegetale, aragoste, frigoriferi. Possedeva una enorme villa a Rio de Janeiro, proprio sotto il Corcovado. Ed era un amico personale di Leonida Brizola, potente e chiacchierato governatore dello Stato di Rio.
Ripoll Mari, invece, era molto più che chiacchierato. Da molti mesi poliziotti di vari paesi lo tenevano d’occhio. Lo consideravano non un trafficante qualsiasi, ma un grande esperto in tecniche di riciclaggio del denaro sporco. A lui, secondo le polizie di mezza Europa, si rivolgevano tutti coloro – imprenditori, mafiosi, politici e narcotrafficanti – che avevano necessità di far uscire dai loro paesi grosse quantità di denaro di provenienza oscura: dall’evasione fiscale, alle tangenti, fino alla vendita di droga.
L’opera di infiltrazione, affidata nel dicembre del 1990 allo specialista della polizia svizzera, procedeva bene. Una sera, a Lugano, Ripoll Mari aveva parlato all’amico ticinese di un progetto gigantesco: la costruzione di una intera città, 3000 chilometri a nord di Rio de Janeiro, nel Mato Grosso. La città, aveva raccontato Ripoll Mari, si sarebbe chiamata Nova Atlantida, e sarebbe stata edificata interamente con i soldi “sporchi” di una sorta di “consorzio” tra politici brasiliani e soci europei che avevano bisogno di esportare e investire denaro di provenienza non confessabile. 3-400 milioni di dollari, per cominciare.
«Il tuo compito – aveva spiegato Ripoll Mari all’agente infiltrato – sarà quello di trasportare i soldi da Spagna, Francia e Italia in Svizzera, e di versarli su un conto corrente aperto a Lugano». Il poliziotto non aveva fatto domande, perché la discrezione era una delle qualità che Ripoll Mari apprezzava maggiormente. Ma quella stessa notte, nell’albergo in cui era alloggiato, aveva incontrato un suo collega, e gli aveva riferito parola per parola il discorso di Ripoll Mari. L’operazione era così iniziata ufficialmente. Era stato un funzionario della polizia svizzera a decidere che si sarebbe chiamata, in codice, “operazione Mato Grosso”.
Ripoll Mari arrivò a Chiasso intorno alle undici del mattino, e aveva appena finito di piovere. Si infilò in un palazzo al numero 45 di Carso S. Gottardo. L’agente “undercover” gli andò incontro sulle scale, si salutarono con una robusta stretta di mano. Rimasero a parlare per diverse ore, con una sola breve pausa per il pranzo, in un ristorante poco lontano.
Ripoll Mari annunciò all’amico che l’operazione stava per partire. Pazientemente, gli spiegò quali sarebbero stati i codici da utilizzare per mettersi in contatto con i soci del “consorzio” che in Francia, Spagna e Italia gli avrebbero fornito il denaro da portare in Svizzera. Ogni volta, il trasportatore avrebbe dovuto telefonare a un numero che Ripoll Mari gli avrebbe comunicato, e pronunciare il suo nome accompagnato dalla data del giorno in corso. Le istruzioni, cambiavano leggermente da Paese in Paese. Ai francesi, l’amico di Ripoll Mari avrebbe dovuto dare il suo nome seguito da giorno, mese e anno. Agli spagnoli il nome e poi l’anno, il mese e il giorno; agli italiani, infine, giorno, mese, anno e nome. Ogni volta, gli avrebbero fornito in cambio un indirizzo a cui avrebbe dovuto recarsi per prelevare il denaro. Poche decine di milioni all’inizio, per “rodare” la struttura. Poi somme sempre più grosse.
In quella occasione, Ripoll fornì a quello che considerava un suo fidato collaboratore soltanto i numeri di telefono da contattare in Spagna. Da laggiù dovevano arrivare, secondo il finanziere brasiliano, circa 100 milioni di dollari. Un controllo, qualche giorno dopo, avrebbe appurato che quei numeri erano in uso a persone che gravitavano negli ambienti dell’Eta, l’organizzazione indipendentista basca. Ma il poliziotto dovette sforzarsi di non tradire l’emozione quando Ripoll, al ristorante, gli fece il nome dei componenti italiani del “consorzio”: «In Italia – spiegò Ripoll all’amico – dovrai andare dagli uomini del clan Berlusconi». E più precisamente, aggiunse, dagli uomini di Torino del clan Berlusconi. Proprio nel capoluogo piemontese, infatti, sarebbe avvenuto il passaggio del denaro.
Nel 1991 Silvio Berlusconi non era ancora un potenziale leader politico, ma le sue tre reti televisive erano già molto seguite in Svizzera, e l’agente si rendeva conto che quel nome dava all’inchiesta uno spessore tutto particolare. Ma lui, da poliziotto, non poteva farci niente. Ma di che razza di denaro si trattava? Questo l’infiltrato non poteva chiederlo senza allarmare Ripoll, e infatti non lo fece. Gli bastava sapere che la commissione che gli sarebbe spettata, su ogni trasporto, era dell’8 per cento. Il riciclaggio di denaro – in questo a furia di fare l’infiltrato era ormai un esperto – ha un suo tariffario: il 30 per cento al “corriere” se si tratta di denaro falso; l’1,5 o il 2 per cento se il denaro è pulito, ma per qualche ragione il proprietario vuole trasferirlo da un paese all’altro senza pubblicità. L’8 per cento è invece la commissione abitualmente fissata per il trasporto di denaro sporco: ossia proveniente da traffico di droga, armi, sequestri di persona; ma forse anche da tangenti, o evasione fiscale. Denaro “nero” in generale, insomma.
Il finto trasportatore e Ripoll Mari si lasciarono nel tardo pomeriggio. Ripoll era soddisfatto, l’agente piuttosto eccitato, perché il momento dell’azione si avvicinava. La mattina dopo, contattò un colonnello della Guardia di Finanza italiana. L’alto ufficiale lavorava all’ufficio “I”, una sorta di servizio informazioni delle fiamme gialle, che negli ambienti di polizia è conosciuto come il “servizio oscuro”. Se il trasporto dei soldi del “clan Berlusconi” da Torino a Lugano fosse stato intercettato alla dogana di Chiasso, l’intera operazione “Mato Grosso” sarebbe saltata. Il poliziotto voleva che i colleghi italiani lasciassero passare il carico senza problemi, come già altre volte era accaduto.
Il permesso fu concesso, ma a quel punto qualcosa si bloccò: gelosie tra poliziotti, ma soprattutto la presenza di agenti corrotti nel traffico organizzato da Ripoll Mari, portò prima a un rallentamento, e poi al blocco dell’inchiesta. Tutte le carte finirono nell’archivio della Procura di Lugano, dove “Avvenimenti” le ha rintracciate.
Fin qui la storia dell’operazione “Mato Grosso”. Ma il rapporto del 13 settembre 1991 fornisce un’altra fragorosa indicazione: «Il nome di Berlusconi non deve impressionare più di quel tanto – vi si legge – poiché anni fa, segnatamente ai tempi della Pizza Connection, lo stesso era fortemente indiziato di essere il capolinea dei soldi riciclati…». Mai in precedenza il nome di Berlusconi era stato affiancato alle indagini sul gigantesco riciclaggio di narcodollari tra il Sud America, l’Italia e la Svizzera, conclusasi con due processi – a Lugano e a Roma – e con una raffica di condanne. Ma c’è anche da aggiungere che il rapporto svizzero indica la Pizza Connection soltanto come riferimento temporale. E che, oltretutto, gli inquirenti svizzeri tendono a definire come “Pizza Connection” tutte le indagini sul riciclaggio che riguardino l’Italia.
Fissati questi punti fermi, abbiamo lavorato sulla traccia offerta dal rapporto della polizia di Bellinzona. Verificando che qui, a differenza che nella “operazione Mato Grosso”, i contorni del presunto coinvolgimento di Berlusconi sono più sfumati e incerti. Nel rapporto vengono fatti i nomi di due magistrati «interessati» alle indagini, l’italiano Francesco Di Maggio, e lo svizzero Dick Marty. Un funzionario della polizia elvetica, che chiameremo convenzionalmente A.B., ha detto ad “Avvenimenti”: «Nel 1989 Di Maggio stava lavorando insieme a un colonnello della Guardia di Finanza a una inchiesta sul casinò di Nizza, ed era inciampato su due nomi illustri, quelli di Silvio Berlusconi e di un suo amico, ex campione di motonautica, Renato Della Valle (socio di Berlusconi in “Telepiù”). La Guardia di Finanza aveva intercettato delle telefonate tra Della Valle e un certo Macolin, un torinese, in cui si parlava anche di Berlusconi. Senza informare la magistratura, un corpo di polizia italiano mise sotto controllo anche i telefoni di Silvio Berlusconi. Successivamente Di Maggio venne in Svizzera per interrogare un ticinese che già in passato aveva collaborato con le forze di polizia e che conosce bene gli ambienti finanziari elvetici e italiani».
L’incontro tra Di Maggio e il collaboratore della giustizia si svolse a Chiasso, alla presenza di Dick Marty, e fu redatto anche un verbale. Dick Marty, che ha smesso la toga e oggi fa il deputato al parlamento svizzero, dice di aver collaborato spesso con l’amico e collega Di Maggio. «Ma non ricordo questa occasione – aggiunge – e in ogni caso non potrei parlarne in ossequio al principio della segretezza delle indagini».
Anche Di Maggio – uno dei grandi esperti dell’intreccio tra mafia e alta finanza milanese – ha smesso di fare l’inquirente e oggi è vicedirettore degli istituti di prevenzione e pena. Ricorda l’indagine, partita dalle intercettazioni sulle utenze di Macolin, e conferma l’episodio del viaggio in Svizzera: «Interrogammo un testimone a Chiasso – racconta – e mettemmo a verbale le sue dichiarazioni, che poi confluirono in una indagine sui casinò». Di Maggio, però, smentisce che siano state messe a verbale circostanze riguardanti Berlusconi.
Anche il sostituto procuratore di Roma Aurelio Galasso, che condusse il troncone italiano dell’inchiesta sulla Pizza Connection, esclude che il nome di Silvio Berlusconi sia mai finito tra quello delle persone indagate. Ricorda però che, nel corso di quelle indagini, la Criminalpol di Milano gli inviò un rapporto in cui si parlava di Silvio Berlusconi e dei suoi rapporti con Vittorio Mangano, un boss della mafia palermitana trasferitosi a Milano a metà degli anni ’70 ed entrato in contatto con un gruppo di “colletti bianchi”, imprenditori e finanzieri milanesi particolarmente spregiudicati. Mangano, che a Milano faceva la bella vita e soggiornava al lussuoso hotel “Duca di York”, rischiava il foglio di via della Questura, a causa dei suoi precedenti penali e della mancanza di un lavoro che ne giustificasse la permanenza in Lombardia. Ma trovò occupazione, fortunatamente, proprio ad Arcore, come stalliere della scuderia del cavalier Berlusconi. Il licenziamento arrivò solo nel 1980, pochi giorni prima dell’arresto per traffico di stupefacenti e altri reati.
Vecchie e nuove storie, che si intrecciano attorno all’uomo più discusso – nel bene e nel male – del momento. Una vecchia storia – la Pizza Connection – un po’ vaga e nebulosa, e una nuova – il “Mato Grosso” – che ha contorni più netti, ma che si è fermata su un binario morto proprio nel momento decisivo. Ma non è detto che l’inchiesta sui capitali illegali in viaggio tra Europa e Brasile non possa riaprirsi da un momento all’altro.
A Ginevra, proprio in queste settimane, la polizia cantonale ha ripreso l’indagine dal punto in cui era stata abbandonata. E nei giorni scorsi il presidente del tribunale di Rio de Janeiro, Antonio Carlos Amorin, è venuto a Roma per incontrare alcuni colleghi italiani e lanciare un allarme: «il problema principale che abbiamo in questo momento non è il traffico di droga – ha spiegato Amorin – ma quello di denaro. Dall’Italia sta giungendo un flusso ininterrotto di denaro sporco. Viene dalla mafia, dalla grande criminalità e dalla finanza illegale. Decine e decine di miliardi di dollari che non transitano attraverso i canali ufficiali e di cui non si ha traccia presso la Banca Centrale del Brasile. Arriva nel nostro paese in mille modi, come la droga».
L’interesse di questi misteriosi esportatori di denaro, secondo Amorin, «è chiaramente politico. Si finanzia un partito politico, o suoi esponenti, per averne un ritorno economico quando questi uomini saranno al potere. Più o meno quello che è accaduto da voi. Sono convinto che per capire la nostra tangentopoli bisogna prima capire quali sono stati i personaggi principali e i sistemi occulti della vostra».

Paolo Fusi
Michele Gambino
Copyright 1994, “Avvenimenti” – “I Siciliani”